L’inferno come conseguenza logica: il fallimento del cristianesimo.


Pubblicato in Religioni e sètte
30 Settembre 2017 + edit 3 Ottobre 2017
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La que­stio­ne del­l’in­fer­no come ‘sta­to’ e non ‘luo­go’ è esem­pla­re sia del meto­do cat­to­li­co del ‘rigi­rar­si la frit­ta­ta’©, sia del­la fra­gi­li­tà (o ine­si­sten­za) dell”ispirazione divi­na’®, sia cer­ta­men­te del­la fumo­si­tà incon­si­sten­te del­la fede, che ren­de cre­du­li nono­stan­te tut­to quel­lo spa­del­la­re ispi­ra­to.

L’i­co­no­gra­fia sul tema non è nata né ha gira­to per seco­li sino ad ora per caso. C’è una base bibli­ca e uno sco­po spe­ci­fi­co nel suo uso inten­zio­na­le. La fabu­la in sur­round e tech­ni­co­lor dove­va par­la­re allo sto­ma­co e al cuo­re – l’im­ma­gi­ne all’im­ma­gi­na­zio­ne – instil­lan­do e ampli­fi­can­do pau­ra, col­pa, sot­to­mis­sio­ne.

Evi­tan­do di par­la­re di luo­go si vor­reb­be sfu­ma­re l’i­dea del­la tor­tu­ra fisi­ca, con­tro cui il mon­do moder­no ha svi­lup­pa­to coscien­te avver­sio­ne. Eppu­re è evi­den­te per altre vie che anche di essa si par­la, a par­ti­re dal­le paro­le di Gesù – che mai la descri­ve in ter­mi­ni di meta­fo­ra – fino alla fabu­la del para­di­so – luo­go oppo­sto all’in­fer­no – pas­san­do per la risur­re­zio­ne del­la car­ne, dei cor­pi.
E la Chie­sa lo sa, e infat­ti non nega con la net­tez­za che sareb­be neces­sa­ria (v. ccc 1035, anche GPII “più che un luo­go, la situa­zio­ne…”), e non fa nul­la (non può, sen­za negar­si) per dire a tut­ti che l’im­ma­gi­ne è sba­glia­ta, sol­tan­to una cre­den­za popo­la­re, un luo­go comu­ne. Allo­ra ricor­re all’am­bi­gui­tà, al dico e non dico, al vedo e non vedo (por­no­gra­fi­co, ma anco­ra ero­ti­co).
Anda­re all’in­fer­no è anco­ra pos­si­bi­le.

Ma in fon­do cosa cam­bia se a bru­cia­re ater­na­men­te non è il cor­po, ma l’a­ni­ma?

Di più: nel­la sua ulti­ma incar­na­zio­ne, l’in­fer­no diven­ta con­se­guen­za logi­ca di una pre­sun­ta scel­ta del sin­go­lo uomo in vita, oscu­ran­do l’i­dea di un Giu­di­ce, di un Giu­di­zio, di puni­zio­ne e con­dan­na. Al cospet­to del­l’uo­mo, Dio si fareb­be pic­co­lo buro­cra­te, sem­pli­ce ese­cu­to­re testa­men­ta­rio. Men­tre l’uo­mo avreb­be il gran­dis­si­mo pote­re di con­dan­na­re sé stes­so, o di deci­de­re per il para­di­so. Dot­tri­nal­men­te impos­si­bi­le e insen­sa­to, ma quan­to como­do fa que­sta rilet­tu­ra fit­ti­zia che sal­va quel Giu­di­ce dal­le sue ter­ri­bi­li respon­sa­bi­li­tà – una infi­ni­ta pena eter­na! Deci­sa, minac­cia­ta e inflit­ta per non aver­lo ama­to! Nar­ci­si­sta vio­len­to – e ricol­pe­vo­liz­za – anco­ra e sem­pre – quel pove­r’uo­mo!

Per me, è il soli­to gio­co di spec­chi – e di arram­pi­ca­men­to sugli spec­chi – del­la Ccar, ma appli­ca­to a un con­cet­to che met­to fra i più immo­ra­li e distrut­ti­vi fra tut­ti.
Per­de­re l’im­ma­gi­ne bru­ta­le cui è lega­to sareb­be un bene, ma la gra­vi­tà con­cet­tual­men­te reste­reb­be ugua­le. Con quel tan­to in più di mani­po­la­zio­ne psi­co­lo­gi­ca che da sem­pre – tra­gi­ca­men­te – aiu­ta a cre­de­re.

L’in­fer­no come con­dan­na eter­na è una del­le idee peg­gio­ri del cri­stia­ne­si­mo, e nel con­si­de­rar­la il più alto esem­pio – anzi­ché dimo­stra­zio­ne del fal­li­men­to – di dio come padre infi­ni­ta­men­te buo­no e giu­sto, si mani­fe­sta la dram­ma­ti­ci­tà (e peri­co­lo­si­tà, innan­zi­tut­to per sé stes­si) di una fede cie­ca che giun­ga a inver­ti­re il sen­so (eti­co, ancor pri­ma che fat­tua­le) del­le cose.
L’uo­mo ha ciò che si meri­ta per non aver ama­to e obbe­di­to – o per aver­lo fat­to – e dio – che ciò ha richie­sto e pre­di­spo­sto – anco­ra e sem­pre, è sal­vo e ci ama. Geni­to­ri e figli, rela­zio­ni peri­co­lo­se.

Ne ho par­la­to anche nel Pic­co­lo manua­le di uma­ne­si­mo ateo, capi­to­lo 11, par. L’Inferno esi­ste ed è dove Dio met­te le ani­me dei dan­na­ti.

(…) Ma Dio non era ovun­que? For­se che allo­ra è lui, in real­tà, a non far­si più sen­ti­re? In effet­ti, nes­sun ateo (e nes­sun pec­ca­to­re) ha coscien­te­men­te l’inferno come sco­po, né, lon­ta­no da dio in vita, sof­fre una pena tan­to ster­mi­na­ta – sem­pli­ce­men­te, vive­re sen­za Dio NON è un infer­no – dun­que per­ché dire che è una sua scel­ta, se non per dare un’altra col­pa alla per­so­na?
Che idea scel­le­ra­ta, quan­do è evi­den­te che l’intero mec­ca­ni­smo è deci­so, appron­ta­to e mes­so in atto da Dio stes­so! Adde­bi­ta­re quest’ultima respon­sa­bi­li­tà a chi è già sta­to giu­di­ca­to pec­ca­to­re dal­la nasci­ta diven­ta l’ennesima, tri­ste, para­dos­sa­le cele­bra­zio­ne del vero col­pe­vo­le. Basta con l’ipocrisia dei gio­chi di paro­le: l’inferno è la con­dan­na per chi non pia­ce al giu­di­ce, il qua­le s’è anche scrit­to la leg­ge a misu­ra.
Che dice: Io sono il Re dell’universo e mi sono dovu­te la tua ado­ra­zio­ne e la tua fede. Sia essa cie­ca: la misu­re­rò, infat­ti, non mostran­do­mi mai. Sei libero/a di sot­to­met­ter­ti e obbe­dir­mi, per­ché io sono il Bene e tut­to il resto – non impor­ta cosa – è Male. Solo in me, dun­que, puoi esse­re feli­ce, e io voglio che tu sia feli­ce! Ecco allo­ra, ti con­ce­do la gra­zia di ono­rar­mi. Mi aspet­to che tu apprez­zi tan­ta bene­vo­len­za, e che mi ami a tua vol­ta viven­do per me sol­tan­to. Fal­lo, e avrai una gra­zia per­si­no mag­gio­re: ado­rar­mi di per­so­na. Rifiu­ta inve­ce il mio dono d’amore, pro­va a gover­na­re te stesso/a e a rea­liz­zar­ti oggi cer­can­do aiu­to fra gli uomi­ni, e per que­sto assur­do egoi­smo, que­sta col­pe­vo­le irri­co­no­scen­za dovrò punir­ti in eter­no. Sen­za di me sarai infe­li­ce e sof­fri­rai, per­ché io stes­so farò in modo che acca­da.
Da qua­le per­so­na vor­rem­mo esse­re ama­ti in que­sto modo? Di chi non giu­di­che­rem­mo grot­te­sco, gla­cia­le e abu­si­vo que­sto modo di ama­re? E se è Dio a far­lo?
(…) Come potrem­mo allo­ra chia­mar­lo giu­sto e buo­no alla per­fe­zio­ne? Come potrem­mo dire che ci ama?
Per con­tro, se la pena fos­se solo la lon­ta­nan­za da Lui, beh …sai che sof­fe­ren­za.
(…)

(Vedi anche il cap. 8, in par­ti­co­la­re il pas­so che ini­zia con: Che tipo di amo­re inten­de, dio? Trop­po spes­so un amo­re mole­sto).