La questione dell’inferno come ‘stato’ e non ‘luogo’ è esemplare sia del metodo cattolico del ‘rigirarsi la frittata’©, sia della fragilità (o inesistenza) dell”ispirazione divina’®, sia certamente della fumosità inconsistente della fede, che rende creduli nonostante tutto quello spadellare ispirato.
L’iconografia sul tema non è nata né ha girato per secoli sino ad ora per caso. C’è una base biblica e uno scopo specifico nel suo uso intenzionale. La fabula in surround e technicolor doveva parlare allo stomaco e al cuore – l’immagine all’immaginazione – instillando e amplificando paura, colpa, sottomissione.
Evitando di parlare di luogo si vorrebbe sfumare l’idea della tortura fisica, contro cui il mondo moderno ha sviluppato cosciente avversione. Eppure è evidente per altre vie che anche di essa si parla, a partire dalle parole di Gesù – che mai la descrive in termini di metafora – fino alla fabula del paradiso – luogo opposto all’inferno – passando per la risurrezione della carne, dei corpi.
E la Chiesa lo sa, e infatti non nega con la nettezza che sarebbe necessaria (v. ccc 1035, anche GPII “più che un luogo, la situazione…”), e non fa nulla (non può, senza negarsi) per dire a tutti che l’immagine è sbagliata, soltanto una credenza popolare, un luogo comune. Allora ricorre all’ambiguità, al dico e non dico, al vedo e non vedo (pornografico, ma ancora erotico).
Andare all’inferno è ancora possibile.
Ma in fondo cosa cambia se a bruciare aternamente non è il corpo, ma l’anima?
Di più: nella sua ultima incarnazione, l’inferno diventa conseguenza logica di una presunta scelta del singolo uomo in vita, oscurando l’idea di un Giudice, di un Giudizio, di punizione e condanna. Al cospetto dell’uomo, Dio si farebbe piccolo burocrate, semplice esecutore testamentario. Mentre l’uomo avrebbe il grandissimo potere di condannare sé stesso, o di decidere per il paradiso. Dottrinalmente impossibile e insensato, ma quanto comodo fa questa rilettura fittizia che salva quel Giudice dalle sue terribili responsabilità – una infinita pena eterna! Decisa, minacciata e inflitta per non averlo amato! Narcisista violento – e ricolpevolizza – ancora e sempre – quel pover’uomo!
Per me, è il solito gioco di specchi – e di arrampicamento sugli specchi – della Ccar, ma applicato a un concetto che metto fra i più immorali e distruttivi fra tutti.
Perdere l’immagine brutale cui è legato sarebbe un bene, ma la gravità concettualmente resterebbe uguale. Con quel tanto in più di manipolazione psicologica che da sempre – tragicamente – aiuta a credere.
L’inferno come condanna eterna è una delle idee peggiori del cristianesimo, e nel considerarla il più alto esempio – anziché dimostrazione del fallimento – di dio come padre infinitamente buono e giusto, si manifesta la drammaticità (e pericolosità, innanzitutto per sé stessi) di una fede cieca che giunga a invertire il senso (etico, ancor prima che fattuale) delle cose.
L’uomo ha ciò che si merita per non aver amato e obbedito – o per averlo fatto – e dio – che ciò ha richiesto e predisposto – ancora e sempre, è salvo e ci ama. Genitori e figli, relazioni pericolose.
Ne ho parlato anche nel Piccolo manuale di umanesimo ateo, capitolo 11, par. L’Inferno esiste ed è dove Dio mette le anime dei dannati.
(…) Ma Dio non era ovunque? Forse che allora è lui, in realtà, a non farsi più sentire? In effetti, nessun ateo (e nessun peccatore) ha coscientemente l’inferno come scopo, né, lontano da dio in vita, soffre una pena tanto sterminata – semplicemente, vivere senza Dio NON è un inferno – dunque perché dire che è una sua scelta, se non per dare un’altra colpa alla persona?
Che idea scellerata, quando è evidente che l’intero meccanismo è deciso, approntato e messo in atto da Dio stesso! Addebitare quest’ultima responsabilità a chi è già stato giudicato peccatore dalla nascita diventa l’ennesima, triste, paradossale celebrazione del vero colpevole. Basta con l’ipocrisia dei giochi di parole: l’inferno è la condanna per chi non piace al giudice, il quale s’è anche scritto la legge a misura.
Che dice: Io sono il Re dell’universo e mi sono dovute la tua adorazione e la tua fede. Sia essa cieca: la misurerò, infatti, non mostrandomi mai. Sei libero/a di sottometterti e obbedirmi, perché io sono il Bene e tutto il resto – non importa cosa – è Male. Solo in me, dunque, puoi essere felice, e io voglio che tu sia felice! Ecco allora, ti concedo la grazia di onorarmi. Mi aspetto che tu apprezzi tanta benevolenza, e che mi ami a tua volta vivendo per me soltanto. Fallo, e avrai una grazia persino maggiore: adorarmi di persona. Rifiuta invece il mio dono d’amore, prova a governare te stesso/a e a realizzarti oggi cercando aiuto fra gli uomini, e per questo assurdo egoismo, questa colpevole irriconoscenza dovrò punirti in eterno. Senza di me sarai infelice e soffrirai, perché io stesso farò in modo che accada.
Da quale persona vorremmo essere amati in questo modo? Di chi non giudicheremmo grottesco, glaciale e abusivo questo modo di amare? E se è Dio a farlo?
(…) Come potremmo allora chiamarlo giusto e buono alla perfezione? Come potremmo dire che ci ama?
Per contro, se la pena fosse solo la lontananza da Lui, beh …sai che sofferenza.
(…)
(Vedi anche il cap. 8, in particolare il passo che inizia con: Che tipo di amore intende, dio? Troppo spesso un amore molesto).