Spedita ai maggiori quotidiani il 20/08/16.
Rif. Polemica burkini, divieto ‘laico’.
Spedita in due lunghezze. La seconda sotto.
Carissimo Flores d’Arcais,
non condivido la sua conclusione sul burkini (“Perché è giusto vietare il burkini”, Repubblica, 18/08) e da ateo umanista le dirò perché.
Sì, nell’Islam radicale esiste un problema di non-libertà e di non-uguaglianza della donna. Una piaga ripugnante che produce sofferenze, anche delle più raccapriccianti. E sì, è urgente che uno Stato laico lo affronti come tale, senza ipocrisie finto-liberal.
E tuttavia, vietare tout-court il burkini è stato e sarebbe un errore. Il burkini, infatti, non è il burqa.
Assimilare il primo al secondo, che invece copre anche il viso e persino gli occhi, e individuarvi i lampi di una sprezzante imposizione piuttosto che – anche, soprattutto? – la prosecuzione di una consuetudine feriale, sembra dunque ingiusto.
È possibile, ma non è detto, che dietro a un abito lungo ci sia una donna usata o plagiata, e lei ed io sappiamo anche che è possibile, ma non è detto, che sotto al due pezzi ce ne sia una emancipata, libera, felice, rispettata. Puntiamo il dito allora, ma sull’etica che ci manca.
Nel doveroso, inesausto impegno dello Stato a protezione della donna e della giustizia, si colga l’occasione per ridare i termini generali, prioritari e ineludibili, che regolano da noi la convivenza: la donna è libera di vestire bikini e burkini, perché gode degli stessi diritti dell’uomo e non è soggetta ad esso in nessun modo. Questo il principio, questa è la regola, questa la vita nel Paese.
Coesistenza pacifica a parità di diritti, e non frammentazione ostile a vantaggio di pochi, sotto l’ala di uno Stato equidistante dalle religioni e al contempo forte di valori umani. Immagina il folgorante effetto di un annuncio simile che provenisse dalle nostre istituzioni?
La proibizione è ottusa, religante, eterofondata, e sempre troppo facile per chi governa. Se si vuole affrontare il discorso diritti e Islam in occidente – e si deve senz’altro – allora va fatto dalla radice, valore contro valore, informandone, diffondendoli ed essendone d’esempio. Non possiamo lasciare che la contesa, delicata di suo, sia affrontata per la via traversa e ambigua del divieto, né che un costume da bagno serva a certa politica per spostare cannoni ovunque ma non su sé stessa, un’altra volta.
Laicità, nel suo senso più ampio, è uguaglianza e rispetto in azione. Il resto ne deriva. Che aspettiamo a dirlo?
Con stima
Carissimo Flores d’Arcais,
apprezzo spesso e molto ciò che scrive, perciò questa è quasi una novità: non condivido la sua conclusione sul burkini (“Perché è giusto vietare il burkini”, Repubblica, 18/08) e da ateo umanista le dirò perché.
Sì, nell’Islam radicale – urlato, tacito o in fotogenico make-up – esiste un problema di non-libertà e di non-uguaglianza della donna. Sì, è una piaga ripugnante che produce sofferenze, anche delle più raccapriccianti. E sì, è urgente che uno Stato laico – come quello francese, ma anche il nostro – lo affronti apertamente come tale, senza ipocrisie finto-liberal.
No, non è questa islamofobia.
E tuttavia, vietare tout-court il burkini è stato e sarebbe un errore. Il burkini, infatti, non è il burqa.
Il burkini, costume ‘a figura intera’ che lascia scoperto il viso, non è certo una moda, ma nemmeno ostentazione, né necessariamente strumento e simbolo di oppressione. Non necessariamente.
È certamente espressione di riservatezza, ma non sappiamo quanto spesso e in quali casi sia indossato per dovere o con sofferenza.
Assimilare l’indumento al burqa, che invece copre anche il viso e persino gli occhi, e individuarvi i lampi di una sprezzante imposizione e non invece – anche, soprattutto? – la prosecuzione di una consuetudine feriale – vestito lungo e hijab, ancora consentiti dalla legge – sembra dunque ingiusto.
Per conseguenza, fondamentale errore di principio e strategia sarebbe il generalissimo divieto di indossarlo. Tuttavia quel doveroso, inesausto impegno a protezione della donna e della gustizia può prendere una direzione più efficace.
Si proceda certamente dalla regola, non dall’eccezione, e si colga l’occasione – d’oro – per ridare i termini generali, prioritari e ineludibili, che regolano da noi la convivenza: la donna è libera di vestire bikini e burkini, perché gode degli stessi diritti dell’uomo e non è soggetta ad esso in nessun modo.
Questo il principio, questa è la regola, questa la vita nel Paese. Qui nessuno ha un diritto particolare a sottomettere, nessuno ha il dovere di subire e soffrire.
Sia più chiaro ancora: ciascuno di noi ha la medesima dignità di persona e identico diritto alla sua felicità. Per questo, la legge vieta il sopruso in ogni forma – fisica o psicologica, manifesta o implicita, pubblica o privata – e tutela chi ne è anche solo minacciato.
Immagina il folgorante effetto di un annuncio simile che provenisse dalle istituzioni?
Da una parte si avverte il prepotente violento, dall’altra si tende una mano sicura alla vittima.
Per tutti, la certezza della massima libertà possibile, l’idea di tante felicità legittime, il limite del rispetto fra pari.
Coesistenza pacifica a parità di diritti, e non frammentazione ostile a vantaggio di pochi, sotto l’ala di uno Stato equidistante dalle religioni e al contempo forte di valori umani, adottati e riscoperti a beneficio del Paese.
Fine, ma anche mezzo.
Dimostrandolo proprio adesso, nell’evitare di ridurre il caso a polemica d’estate, ma anche di accenderci le micce di cannoni stocastici anti-Islam. E trattandolo per ciò che è: un momento decisivo per dire andate in spiaggia, siete libere! Viviamo secondo altri valori.
Se si vuole affrontare il discorso diritti e Islam in occidente – e si deve senz’altro – allora va fatto dalla radice, valore contro valore, informandone, diffondendoli ed essendone d’esempio. Non possiamo lasciare che la contesa, delicata di suo, sia affrontata per la via traversa e ambigua del divieto.
È possibile ma non è detto, infatti, che dietro a un abito lungo ci sia una donna usata o plagiata, e che sotto a un due pezzi ce ne sia una emancipata, libera, felice, rispettata. Le religioni non sono, ma possono essere minaccia per l’eguaglianza e per la ragione. Così come un Paese occidentale non è macchinalmente il paradiso dei diritti applicati, lei ed io lo sappiamo. L’Islam peggiore fa scoppiare un problema di mentalità e comportamento, cioè prima intimo e poi sociale, che anche da noi esiste, e in foggia non poi così diversa. Non va scordato, non va rimosso.
Puntiamo il dito allora, ma sull’etica che ci manca.
Accusiamo non del vestiario, ma ogni strumento di oppressione e svilimento. Non il maschio musulmano, ma violenza e prevaricazione. Non la religione, ma qualsiasi dettame generi e mantenga il privilegio di alcuni sul mortifero disagio di altri, non importa in nome di quale dio, o senza.
Il divieto è ottuso, religante, eterofondato, e sempre troppo facile per chi governa. Lasciamo che le persone si vestano come vogliono, ma ricordiamo loro quanto valgono come esseri umani. Impediamo l’indottrinamento e l’abuso in qualsiasi forma, insegnamo a pensare e ad ascoltare, aiutiamo a conoscere, conoscersi, condividere. È il mestiere, e l’unicità specifica, di uno Stato laico. Dovrebbe.
Se dunque si è aperta una questione di diritti civili molto più che di costumi da bagno, non sarebbe un errore intervenire sui secondi e non sui primi, ma in nome dei primi? Un gioco di fine retorica, di maschere da buoni e giusti e pubblicità senza sostanza, tipico di tanta piccola politica stavolta occidentale, che parimenti non guadagna dal pensiero critico, dalla cultura dei diritti e dalla fattiva eguaglianza in tutte le sue manifestazioni. Essa non spreca l’occasione, non passa la mano, ne approfitta per sproloquiare di sé stessa.
Anche a questa va dunque ricordato: intendiamo vivere secondo altri valori.
Laico non è neutro, non è velo e neanche maschera. Laico è uguaglianza e rispetto in azione. Il resto ne deriva. Che aspettiamo a dirlo?
Se vorrà, gradirò molto leggere la sua risposta.
Con stima