Bergoglio è un prete, un gesuita, e il papa. Facile attribuirgli malizia, tattica, manipolazione.
Ma poi lo vedi improvvisare un abbraccio a un bambino che piange, consolarlo, e chiedergli il permesso di riportare le sue parole al microfono. Sembra sincero. Realmente spontaneo e accogliente.
Può essere così bravo a fingere? Può, inversamente, una persona limpida e accogliente essere papa? Probabilmente entrambe in qualche misura, senza sopravvalutare. Un po’ ci fa un po’ ci è, a seconda delle situazioni. Questa di Corviale è andata bene.
Nel senso che l’abbraccio amicale e consolatorio costituisce uno degli aspetti migliori della religione. Un altro è l’esortazione a fare “del bene agli altri”, con cui, pure, Bergoglio chiude l’appuntamento di piazza.
Allora tutto bene? No. Perché per sua natura, una religione porta con sé un bagaglio di idee che, anche quando sfrondato da malizia e manipolazione, pesano, limitano e condizionano la libertà interiore e l’espressione di sé. L’episodio di Corviale è esemplare.
1) Che un bambino abbia un motivo per piangere è una cosa che preoccupa e intristisce. Non dovrebbe succedere. Se poi è la morte di un caro a colpirci, il peso della perdita è di per sé enorme, e specie per un bambino l’elaborazione del lutto sarà un percorso difficile e delicato. Ma se a questo una religione aggiunge l’idea di una eternità di sofferenza per propria colpa – l’inferno – la difficoltà cresce in progressione geometrica: il mondo interiore del credente, e dei bambini fra essi, è inscritto e descritto da eternità e giudizio, e quanto maggiore la consapevolezza tanto maggiore l’angoscia, la paura, il senso del dovere. Talché si capisce il terrore che quel bambino portava con sé di fronte all’incertezza sul destino del padre.
Io non sono che un bambino e queste cose non le so, ma so che esiste l’inferno per chi non crede e per chi è cattivo. Mio padre non credeva! Mio padre era cattivo? Era mio padre, lo amavo e mi amava, ma adesso è lontano da me, e forse in un posto bruttissimo dove soffrirà per sempre!
Ecco, questo deve aver pensato il bambino, e con lui milioni.
La verità è che la religione consola e rassicura da un pericolo che essa stessa ha costituito.
2) Ma consola? Cioè, può farlo sempre e comunque? Certamente no.
La consolazione è secondaria e in ordine a una visione della vita che va prima accettata. Dio padre buono, noi figli in prova. A lui la gloria, a noi il dovere di glorificarlo in parole e opere. Ciò costituisce il bene, su questo saremo giudicati e da lui eventualmente premiati. O puniti.
Allora, la consolazione può esistere dopo. Soltanto se e in quanto si è accettato di credere a questo e ci si adegua. Ma quanto può essere difficile! Non solo credere senza prove e adeguarsi senza giudicare (il volere di Dio è sempre e comunque il Bene), ma proprio capire, discernere, interpretare il suo volere e le sue intenzioni su di noi. Perché questo padre buono non ci sta fisicamente accanto, ma va rincorso; non si può incontrare per un abbraccio, ma va immaginato abbracciarci; non offre di suo consiglio o chiarimento, ma accenna e allude attraverso segni che vanno innanzituto ritenuti tali, e poi interpretati dal basso (per definizione) delle nostre possibilità.
Che un dato avvenimento significhi X e non Y o Z è totalmente arbritrario, e resta tale anche quando ce ne facciamo certi e vi investiamo tutto.
3) Che significa dopotutto ‘fare il bene agli altri’, o ‘rendere gloria’? Questi concetti sono troppo generici da soli. Il bene e la gloria vanno resi secondo dei riferimenti concreti, che ci dicano cos’è il bene e cosa serve fare, da cosa nasce la speranza, da cosa deriva il premio.
In aiuto viene la dottrina.
Che non è mai sufficiente da sola – all’atto pratico l’interpretazione è comunque d’obbligo, tanto che sugli stessi temi i credenti di una medesima religione hanno capito e fanno cose diverse, ritenendosi parimenti ispirati – ma definisce alcuni ambiti con regole, dogmi, riti e doveri specifici.
La stessa dottrina tuttavia è, nella sua parte sociale, essa stessa relativa, flessibile e adattabile, benché ritenuta eterna e immutabile, spesso non senza grandi dibattiti, spaccature, controversie, fra gente che ritiene di aver capito meglio lo stesso dio.
E allora, all’improvviso per un papa anche un ateo può tranquillamente finire in paradiso, perché era “bravo” e “ha fatto battezzare i figli”. Quali reazioni susciterà questa idea riduttiva e superficiale del cattolicesimo da parte dei più conservatori – correttamente irritati da tali deviazioni cui questo papa non è affatto nuovo – lo vedremo. Sta di fatto che la dottrina è appunto malleabile, e non c’è niente di male – dico, perché comprendo la necessità di evolversi e non presumo assoluti – se serve a meglio consolare, meglio a fare il bene di sé stessi e degli altri.
Ma allora andrebbe allegramente ammesso.
4) Si lasci andare questa balzana idea di idee assolute, di dogmi, di verità rivelate. Si lascino inoltre cadere – ma così, serenamente – le cose che meno servono, i dettami superati, le regole contro ciò che davvero è bene per le persone rispetto a sé stesse, e dunque i riferimenti esterni, come il sistema di giudizio di un dio, l’obbedienza dovuta a un creatore e la vergogna davanti a un padre per averne tradito le aspettative, il miraggio di un paradiso.
In altro consiste il nostro bene, e per giudicare non serve che la parte migliore di noi.
5) E tuttavia, non si fa. Anzi, più la dottrina diventa palesemente inadeguata, più il credo cede sotto il peso della realtà dei fatti, tanto più ci si stringe attorno alla fede e si torna a fantasticare, a fare cose inutili (quando non dannose) perché comunque ordinate, e a consolarsi, sì, con il racconto mitico di un futuro idilliaco, fra le braccia di un dio che ci ama per essere stati bravi, buoni, ubbidienti, come lui comanda.
Allora ecco, caro, piccolo, disperato Emanuele:
Solo Dio decide, e io davvero ne so quanto te, cioè nulla, ma per consolarti all’impronta posso sussurrarti all’orecchio “Era bravo, Dio sarebbe capace di abbandonarlo?”. È in cielo, “stai sicuro”, mica in quel porcaio di dolore che è l’inferno cattolico, per il quale tu giustamente provi un’angoscia fottuta. Questa è “la risposta”.
Fattela andare bene, piccolo, disperato Emanuele. “Parla con tuo padre”, morto ma vivo, “prega per lui”. Come se la preghiera di fatto servisse a qualcosa. Era “bravo”, qualsiasi cosa significhi, e tanto basta.
“Dio ha amato tutti”, e quelli che “preferiscono comportarsi come figli del diavolo”, “dobbiamo pregare perché si convertano”, ecco sì, questo sì che serve, che è utile, che coglie il problema, e lo risolve. Pregare per la conversione, che quando si crede in dio si è 100% bravi di sicuro, come no, lo sanno tutti.
Pregare, credere, battezzarsi, quanto essenziali sono queste cose, rispetto al male del mondo!?
Zero?
E invece, continua Francesco, se è vero com’è vero che col battesimo “entra lo Spirito Santo”, “questo Spirito Santo ci dà più forza per comportarci come figli di Dio”, che è il bene, com’è evidente dal numero enorme di cattivi battezzati. Nonostante “ognuno ha il proprio dolore” che dio non ci ha evitato, “pensiamo ai problemi e ai dolori di Gesù, con i quali ha voluto pagare per tutti noi”, lui sì che ha sofferto, lui sì.
E “facciamo anche del bene agli altri, con gioia”, però non quella che deriva dall’aver fatto la cosa giusta, di essere persone a posto, di aver risposto a una spinta etica tipicamente umana (figuriamoci, questo “lo ha seminato Dio”, come dice la Genesi, anzi no) ma quella “di essere cristiani”.
Ecco il problema, vi dico, “quando ci comportiamo male, quando facciamo un peccato, rattristiamo lo Spirito Santo che è in noi”!
Mica no.
In fondo basta poco, per essere bravi – cioè per far contento papà: “non rattristare lo Spirito Santo che è in te”. Altrimenti, guai.
Ma ve li sarete cercati, piccoli, disperati umani.
La fede, così, perpetua sé stessa, e, al suo peggio, diventa seconda natura. Peccato.