In un recente articolo sul Fatto quotidiano (No more femminicidio: quando le parole contano, 25/10/12) Monica Lanfranco da voce a una mancanza oggettiva della società di oggi, che è quella di sottovalutare il fenomeno dell’omicidio di donne ad opera di uomini. Un problema fra i tanti? Certamente, ma fra i più infami, e in crescita.
“Se si liquida la faccenda con una alzata di spalle, storcendo il naso alla parola femminicidio definendola la solita macchinazione di quatto femministe, si evita di affrontare il cuore del problema: non tutti gli uomini sono assassini, ma alcuni uomini uccidono le donne che hanno amato, o con le quali sono in relazione a vario titolo, perché esiste consenso, in varie forme, per giustificare questa violenza”.
Esiste ‘consenso’? Possibile? Eccome. Ci siamo abituati a considerare normali certe forme di abuso di potere, di sopruso diretto sia esso fisico o psicologico. La maggioranza ancora inorridisce di fronte a certe notizie di cronaca riguardanti la violenza sulle donne (figlie, madri, mogli, compagne) ma non fa nulla per indagarne le cause, per prevenire. E tollera idee e comportamenti abusivi che sono la naturale premessa all’atto omicida. Questi, non fanno notizia.
“Non si nasce femminicida, ma lo si può diventare anche perché esiste una sottovalutazione sociale frequente dei passaggi che precedono l’approdo alla violenza finale: si tollerano forme di sessismo definite ‘scherzo’, si simpatizza con varie forme di disprezzo e di volgarità contro le donne che costituiscono il terreno di coltura che è già sinonimo di violenza”.
E dunque, occorre sensibilizzare al problema, e non aver paura di usare le parole più chiare e più giuste per descriverlo, al fine di toglierlo dall’ombra, comprenderlo, porvi fine.
Quanto mai giusto, secondo me. E allora ecco nascere eccellenti iniziative quali No more, Fiocco Bianco, happening cittadini, in vista del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Bene. Abbastanza? No. E non solo per i soliti limiti di risonanza (ancora relativa), risultati (ancora lenti) e polemiche (c’è davvero chi crede che sia solo un problema di donne, anzi di femministe), ma proprio per un difetto intrinseco: finché imposteremo il nostro sdegno e la nostra azione – se ho capito bene – sul fatto che la violenza di genere non è politically correct, finché ci proporremo soltanto di denunciarla come reale e viva, di attivare le Istituzioni, di sensibilizzare al concetto di parità e non di possesso fra partners una società già malata, staremo ancora agendo sui sintomi. Farlo è senz’altro un grande merito, ma il problema è oltre. È prima.
Se vogliamo arrivare al cuore del problema, come la Lanfranco e tutti noi auspichiamo, presto o tardi dovremo chiederci: l’abuso sulla donna – come quello sui bambini – che ragioni ha? No, no, lo dico meglio: quali sono le cause remote all’origine di ciò che porta certe persone all’uso e all’abuso del più debole? L’episodio che finisce in cronaca è l’atto finale, l’apice tragico di un tragico percorso, ma vogliamo limitarci a dire che la causa si trova genericamente nella società moderna, a darne la responsabilità alla cultura, ai media, al sistema? O a dare per scontato che ‘certi uomini’ non siano come gli altri, che abbiano una tara, un difetto fisiologico, che siano i soggetti di un raptus isolato, che vadano dunque solamente trattenuti prima e puniti dopo?
Detto in altro modo, potremmo prevenire perfino la segreta intenzione di violenza, ancorché l’atto, piuttosto che aspettare che esploda e tentare di giudicarla e curarla?
In buona parte sì, a mio avviso non c’è dubbio: si tratta di prendere coscienza che i comportamenti di abuso, di possesso, di comando, di intolleranza, di rigidità mentale e cecità emotiva, di non rispetto, di vittimizzazione, di sfiducia, volubilità e dipendenza, hanno la propria radice nell’educazione dell’infanzia, laddove un bambino e una bambina (loro ancora certamente indifesi, fisicamente ed emotivamente) cresciuti fra queste stesse dinamiche - mischiate senz’altro all’amore, perché così è quasi sempre - si faranno adulti a loro volta incompleti, duri, difficili e variamente disfunzionali a livello esistenziale.
È – di fatto – un percorso, ma un percorso di vita.
Il risultato non è sempre uno stupratore o un omicida, certo, ma se non ci limitiamo a guardare i gradi massimi che fanno finalmente notizia, possiamo cogliere una trama che ci coinvolge tutti: chi ha imparato ad abusare senza rimorso, chi ad accettare l’abuso senza reazione, chi a chiudersi o a fuggire dalla realtà, chi a cercare di salvarla, chi a viverci come niente fosse, chi a subire tutto questo per riflesso. È questo il sistema che dobbiamo cambiare: il sistema di educare e rapportarci ai nostri bambini.
Non voglio dire che sia l’unica causa, ma certamente è la più profonda e determinante. E su questa possiamo lavorare da subito, invece di marcare il passo scontrandoci con il muro della rimozione e della mancanza di empatia appresa, prendendosela con ragioni indirette e successive a quel muro, quando non con fantasiose ipotesi che in qualche modo giustificano lo stato dei fatti.
La verità è che la società, la cultura, i media, il ‘sistema’ – persino il concetto stesso di essere umano – sono astrazioni per parlare di persone. Persone che furono bambini. Cresciuti come?