Su Gli Stati Generali c’è una bella intervista di Matteo Gemolo a Cinzia Sciuto – giornalista, editorialista di Micromega, attivista dei diritti umani. Spunto della discussione è il suo ultimo libro “Non c’è fede che tenga: Manifesto laico contro il multiculturalismo” (già in ristampa):
“Nel panorama politico attuale, dove solo alle destre piu‘ conservatrici sembrava essere concesso il diritto di sviluppare un discorso critico sul multiculturalismo, questo testo riesce in un miracolo: alla retorica dell’invasione, dell’emergenza sicurezza e delle radici giudaico-cristiane – tanto cara ai populisti europei – l’autrice contrappone, senza esitazioni ed inutili sensi di colpa, una lettura finalmente laica e illuminista di questo fenomeno.
Mettendo al centro del proprio discorso i diritti fondamentali ed inalienabili dell’uomo, il libro di Cinzia Sciuto ha la forza di un vero e proprio manifesto politico”. (segue su Glistatigenerali.com)
L’intervista è molto interessante.
Non ho ancora letto il libro, ma qui, come altrove quando se ne parla, mi pare tuttavia mancare (o essere solo accennato) un elemento fondamentale. Non è solo laicità e spirito critico che vanno diffusi, e non solo attraverso la scuola: dobbiamo ricominciare a parlare di valori etici.
Etica è una parola che a molti di noi non piace, anzi fa paura, perché richiama l’idea di indottrinamento e si paragona a certa pratica di religioni e politica. Ma se è vero, ed è vero, che “Non si possono accettare deroghe a principi che riteniamo universali”, e che “la laicita sarebbe un valore essenziale perché rappresenta la condizione prepolitica per garantire a ciascuno autonomia e libertà”, allora dovremmo anche prendere coscienza che sono appunto quei princìpi – autonomia, libertà, ragione, ma anche pace, uguaglianza, giustizia, e rispetto reciproco per dire – che *fondano* “l’orizzonte culturale” e prepolitico della società che stiamo difendendo (da ciò che appunto nega quei valori, per teoria e prassi).
E che solo parlandone, insegnandoli, diffondendoli a livello sociale – per quanto con metodi trasparenti, non violenti e non indottrinanti, cioè opposti, anche in questo caso, a quelli della fede – possiamo limitare certi eccessi e rialzare il livello di qualità della vita.
Si tratta di venire a patti con l’idea che una forma di influenza sulla cultura e un limite alla libertà personale esistono e devono esistere, ma possono essere attuati senza sfociare nel dogma e nel catechismo. I valori da noi scelti sono lontani da quello per qualità di premesse, metodi e scopi, ma se non coltiviamo il terreno (nemmeno in questo modo deciso ma incruento), altri lo faranno con altre premesse, metodi e scopi, che alla fin fine proprio noi avremo permesso e abilitato.
Il no al multiculturalismo non è un no alla diversità tout-court (al contrario, e ovviamente), ma uno stop a pratiche inaccettabili, derivate da idee infondate, che vengono inaccettabilmente imposte: tutto il resto va bene e va concesso, ma per farlo, occorre ‘imporre’ che lo sia.
Cioè appunto, difendere e diffondere un certo modo di pensare – alla verità e ai rapporti umani – e non un’altro.
Un’imposizione anche questa, o meglio un limite (e quindi una regola) imprescindibile, che va incoraggiata e fatta scegliere liberamente mostrandone i pregi, ma che in quanto tale – in condizioni di partenza opposte e soltanto allora – va pur sempre obbligata.
Obiettivamente sì.
Ma è diversa per origine (i fatti, la natura, la consapevolezza dell’arbitrarietà e imperfezione della scelta), metodo (la condizione di efficacia, la rivedibilità, la razionalità, la non violenza), scopo (non soddisfare un dio o l’ego di qualcuno, ma gli uomini tutti, e mentre vivono: vivere godendo insieme di libertà, pace, pari opportunità, benessere, autonomia, espressione di sé, al massimo grado possibile).
Se dunque ciò che è e ciò che dà ci piace e preferiamo, non possiamo esentarci né dal coltivarla né dal difenderla. Non una scelta interamente, perfettamente etica, ma il male minore – detto meglio: il bene maggiore – eticamente realizzabile.